“Vecchi bardi runici sembrano levarsi attorno
con rozze lire e tuniche multicolori,
le arruffate chiome cinte di fantastiche rame…”
-William Collins-

Quando uno di questi termini arriva alle orecchie di un giocatore di ruolo, anche novizio, sicuramente quello che immagina è il classicissimo “bardo” di D&D, ovvero un bravo intrattenitore capace di affascinare le folle con la sua mimica e la sua arte, lanciare degli incantesimi utili al gruppo, combattere in modo elegante e veloce sfruttando la sua agilità e la grazia naturale, ed addirittura curare. Un tuttofare insomma, abituato a viaggiare ed esplorare il mondo che lo circonda, regalando ai passanti la sua musica e le canzoni che compone.
Ma chi erano nella realtà questi misteriosi individui che tanto hanno affascinato i giocatori di ruolo più artisticamente portati? E soprattutto erano veramente dei semplici artisti di strada? Oppure dietro al pensiero comune che classifica i bardi in questo modo, si possono trovare degli spunti interessanti sulla nostra società e sul modo di tramandare la storia?

Bardi
Partiamo con l’analizzare i vari termini che abbiamo elencato all’inizio, sono tutte parole che sembrano indicare la stessa figura, ma non è propriamente così, per generalizzare di solito tutti i termini vengono usati come sinonimi di “bardo”, ma la realtà è che si differenziano per cultura ed area geografica di provenienza.
Il “Bardo” deriva da un termine proto-celtico Bardos e significa qualcosa come “elogiare, alzare la voce…”, insomma discorrere, narrare e farsi ascoltare, ed era proprio questo il compito di un bardo fin dall’epoca dei britanni e degli aquitani, il dover, insomma narrare qualcosa, nello specifico la cultura del popolo stesso. Una serie di storie e conoscenze che venivano tramandate soprattutto oralmente; i bardi, infatti, erano persone estremamente colte e dotte, indossavano probabilmente vesti particolari, e portavano chiome lunghe e disordinate. In gallico si utilizzava questo termine per indicare dei preti celti e non dei semplici vagabondi che si limitavano a sopravvivere alla giornata.
Solo in seguito questa cultura venne trascritta in ritmica, versi come i canti dei bardi irlandesi, chiamati Ollaves, che ci sono pervenuti grazie ad un grado di isolamento in cui godeva l’Irlanda, che ha permesso all’isola, di mantenere una certa indipendenza linguistica e stilistica. Naturalmente di grande importanza era la musica d’accompagnamento e la danza, che costituiva il tratto distintivo di questi narratori professionisti, che si premuravano di raccontare le gesta degli eroi e dei signori che spesso accompagnavano in battaglia. I bardi avevano il difficoltoso compito di tramandare la cultura gaelica, durante gli anni di cattività prima normanna e poi inglese dell’isola, la musica e le parole di questi “uomini contro”, riescono a salvare almeno una parte della tradizione che ci è pervenuta fino ad oggi in tutto il suo fascino.

“…Muto e fragoroso,
sfida col suo frastuono;
spiegando la sua bandiera
vola su mezzo mondo!
È buono ed è cattivo,
metà angelo, metà demonio;
non mai manifesto,
occulto per sempre!”
-Taliesin, VI sec. d.C.-

Skald
Pochi sono coloro che al di fuori di D&D seconda edizione, hanno sentito parlare invece degli Skald o Scaldi, che nel gioco di ruolo erano semplicemente una classe particolare sotto il bardo stesso, ma che nella realtà indicava semplicemente i poeti di corte della letteratura norrena. Costoro erano considerati poeti guerrieri, spesso in rapporto diretto con l’aldilà, perché oltre a narrare con animosità le gesta dei loro signori in battaglia, erano loro stessi che combattevano a fianco di chi servivano, vivendo in prima persona, le pugne che li vedevano protagonisti, quasi dei cronisti di guerra, ovviamente dalla parte dei loro signori come da tradizione. Ma ciò che caratterizzava un poeta Skald era la trasmissione della conoscenza per enigmi, già cara ai tempi dei Babilonesi, usata anche dai poeti anglosassoni e celtici.
La letteratura norrena più di tutte però, sembra basarsi su questo tipo particolare di “conoscenza”, e fa un largo uso di una figura poetica conosciuta come kenning o in antico norreno kenna eitt við (“kenningar” al plurale), il cui significato è appunto “nominare, conoscere”. L’Edda in prosa del poeta islandese Snorri Sturluson nato verso la fine dell’undicesimo secolo, è un chiaro testo di riferimento per la ricerca di questa interessante figura poetica. Le “kenningar” consistono in un gioco di parole che tramite una serie di termini legati tra di loro da specifiche figure retoriche (rispettivamente: metafora, metonimia ed ossimoro), racchiude il significato di un’altra parola nascosta. Così “La strada delle balene” è una semplice kenningar per indicare il Mare in cui abbiamo i seguenti rapporti di figure retoriche, partendo dalla parola “mare” ovvero la parola nascosta nella frase: Mare è metafora di “strada” e metonimia (un dettaglio per indicare un’idea ad esso correlata) di “balene”, mentre “strada-balene” è un ossimoro, ovvero un paradosso, perché le balene letteralmente non camminano. Anche il poema epico il Waltharius di tradizione cristiano e germanico-pagana, di autore ignoto e di datazione incerta, forse incastonata alla fine del secolo X, ma che ancora oggi è materia di studio e di ipotesi, presenta questa figura poetica tipicamente norrena nelle parole latine ”Wielandia fabrica” ovvero Opera di Wieland (Vulcano), per indicare l’armatura.

“…Adesso è finita. La morte mi chiama,
ecco s’appresta laggiù al promontorio.
Senza rammarico, del tutto sereno,
gli inferi attendo, e ben volentieri…”
-Egill Skallagrímsson, X sec. d.C.-

Giullari e Buffoni
Passiamo ora ad analizzare le figure dei Buffoni, o più comunemente “giullari”, il cui nome deriva dal latino iocularis ovvero “giulivo, o colui che scherza”. Indicava, nel Medioevo, una serie di figure particolari, come giocolieri, mimi, acrobati, ammaestratori di animali, musici e buffoni che rendevano liete le giornate nelle corti, grazie alla loro arte di “far divertire”.
Già Cassiodoro ci tramanda una tradizione di “arti circensi” che Teodorico, re dei Goti, barbaro ma di animo romano, era solito introdurre come rimando alle antiche tradizioni istrioniche greco-romane per far divertire il popolo con questo tipo di spettacoli, benché Teodorico stesso non li ritenesse troppo degni.
Ma i Giullari non erano semplicemente dei “buffoni di corte” utili come intermezzo scherzoso per gli ospiti di un signore; costoro vivevano ai margini della società, erano portavoce di notizie di attualità, e soprattutto, ironizzavano sull’autorità, sia essa religiosa o laica. Spesso facevano rappresentazioni durante le feste religiose, narrando le storie dei santi. Erano comunque figure controverse, spesso perseguitate, perché osavano raccontare ciò che in teoria era bene lasciare all’ignoto. Secondo il proverbio “…una lingua come una spada…”, questi autori di versi immorali o volgari con riferimenti alla sfera sessuale, utilizzavano le parole e appunto “la lingua” come arma contro i potenti.
Di giullari abbiamo notizie che risalgano anche all’età Carolingia, costoro erano condannati ed apprezzati, spesso venivano considerati nemmeno “umani”, per un gusto particolare nel vestire, nel mascherarsi che spesso sfociava nel grottesco e nel carnevalesco. Addirittura il religioso anglosassone Alcuino, nel 791, condanna coloro che ospitano questi “istrioni” nelle loro case, come se fossero portatori di pestilenza ed immoralità con i loro costumi indegni. I giullari erano dunque estremamente satirici nei loro spettacoli, nelle accuse che muovevano all’autorità legittima, in modo divertente e spesso sottile, anche se probabilmente, coi loro versi più graffianti ed ironici, non avevano affatto una vita facile.

“Umìle sono ed orgoglioso,
prode e vile e coragioso,
franco e sicuro e sägio,
e dolente e allegro e gioioso,
largo e scarso e dubitoso,
cortese e villano enodioso;
faciomi pro e danagio.
E diragiovi, como
male e bene ag’io più di null’omo…”
-Ruggieri Apugliese, Poesie, XIII sec. d.C.-

Menestrelli e Trovatori
Concludiamo questo articolo dedicato all’affascinante figura del “poeta errante”, con i menestrelli ed i trovatori. La parola “trovatore” sembra che derivi da un verbo occitano, ovvero “trobar” che significa “comporre, trovare”.
Questo termine era usato per indicare i compositori che usavano la lingua d’oc, un elegante volgare romanzo diffuso nella Francia meridionale nei secoli XII-XII. Le loro composizioni erano per lo più in versi che narravano gesta d’amore o “canso d’amor” nonché le “chanson de geste” rese celebri grazie alla sua diffusione in tutta l’Europa. Costoro erano menestrelli erranti, spesso rappresentati con un liuto nell’atto di comporre versi da dedicare ad una donna, erano uomini assai colti, che potevano provenire sia da ceti elevati, che da ceti umili, potendo ottenere una discreta fortuna con la loro arte.
Particolarità di questi poeti, è infatti, il rispetto in termini di educazione con cui essi trattavano le dame, spesso oggetto delle loro canzoni amorose, nasce dunque quello che venne definito “amor cortese”, un amore platonico ed anonimo considerando che il nome della dama, doveva rimanere segreto, e soprattutto adultero. Lo scopo di questi versi non era come si potrebbe pensare, ottenere l’amore della dama in questione, ma elevarsi ad una condizione superiore come artista, purificato moralmente dalla donna di cui il menestrello trovava ispirazione, doveva rimanere un amore dunque casto, almeno secondo il modello originario. Trovatori e menestrelli dunque solo semplici poeti d’amore?
Questo è quello che potrebbe saltare agli occhi, ma la realtà come sempre era ben diversa, ed ecco che anche i “trovatori”, si inseriscono nel contesto già analizzato con giullari e buffoni, ovvero quello di dare notizia e di attaccare con i loro testi l’autorità. Oggetto delle loro accuse, era spesso la Chiesa, con i suoi costumi ritenuti poco “santi” e troppo legati alle “cose del mondo”; anche il fallimento delle Crociate, e la persecuzione dell’eresia dei catari o albigesi (stanziati soprattutto nel sud della Francia appunto), fu materia di discussione di questi cantori, che la chiamavano “falsa crociata” e si facevano portavoce di un senso di disgusto della popolazione riguardo alcuni atti ritenuti poco “cristiani” della Chiesa durante queste persecuzioni. Erano dunque anche intellettuali che si curavano della realtà che li circondava, con senso critico e passione.

“…Ancora mi rimembra d’un mattino
che facemmo la pace tra noi due,
e che mi diede un dono così grande:
il suo amore e il suo anello.
Dio mi conceda ancor tanto di vita
che il suo mantello copra le mie mani!”
-Guglielmo XI duca d’Aquitania-

Conclusioni
Bardi, skald, buffoni e giullari, trovatori e menestrelli erranti!
Non dunque semplici musici, poeti ed artisti alieni alla passione politica, od inseguitori di sogni e finzioni, ma intellettuali colti, gente di spirito, perfettamente conscia del loro ruolo di portatori di notizie, o di cultura e di tradizioni destinate altrimenti all’oscurità. Cantori di storie e leggende della loro epoca, tramandate oralmente da generazioni di poeti, fino a giungere a noi, per mezzo di frammenti o di racconti fantastici. Uomini profondi conoscitori del loro tempo, impegnati politicamente e culturalmente su questioni di attualità. Portavoce della loro epoca, integrati in società oppure totalmente fuori dal mondo, o ancora ai margini di essa, sollecitando l’opinione comune con i loro spettacoli satirici, cantori di eroiche gesta dei signori presso cui trovavano alloggio.
Difficilmente omologabili, queste figure affascinati ed antiche, combattevano anche loro una battaglia contro un pensiero comune, od una situazione di disagio, e trovavano nella “lingua come spada”, l’arma per affondare prepotenti e signorotti dalle poche qualità.

“Venite gente! Venite qui! C’è qui il giullare!
Vi faccio far satira, giostrare col padrone, che vescica grande è e io con la lingua la voglio bucare.
E vi racconto di tutto, come viene e come va, e come Dio non è quello che ruba!
È il rubare impunito e le leggi sui libri che sono loro… parlare, parlare.
Ehi gente! Il padrone si va a schiacciare!
Schiacciare! È da schiacciare!”
-Dario Fo, “Nascita del giullare”, Mistero buffo, giullarata popolare-

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