Un ragazzino di buona famiglia trascorre le estati nella villa dei nonni, l’estate è caratterizzata dall’amicizia con Felice, il tuttofare custode della casa.
Agli occhi del bambino Felice è una sorta di creatura mitologica, un mostro gentile, e attraverso le parole del contadino, incolto e di scarso intelletto, tutta la villa acquista un tono misterioso, inquietante.
Fra memorie oniriche, curiose esplorazioni e ritrovamenti macabri Michelino, il narratore, ricostruirà la storia di Felice e della residenza estiva della propria famiglia.
La storia è una rivisitazione di un episodio autobiografico, fortemente permeata del contesto storico e geografico: i dintorni del Lago Maggiore del 1969.
L’atmosfera mi ha fatto provare le sensazioni di un racconto di Lovecraft, con la differenza che in questo caso l’elemento orrorifico è al confine fra il reale e il fantastico.
Michele Mari è il più abile manipolatore vivente della lingua italiana che io conosca.
Il problema è che, credo, lui sia cosciente di essere dannatamente bravo e spesso si diverta un po’ troppo a usare molteplici registri, figure retoriche e parole desuete.
Rispetto ad altri romanzi, qui il suo difetto (essere troppo bravo) è contenuto. Leggendo altre recensioni del libro però ho notato che diversi si lamentano di aver difficoltà a capire il dialetto parlato da Felice e di reputare poco credibile il linguaggio ricercato di Michelino.
Personalmente, dopo le prima 4 o 5 pagine per farci un po’ l’occhio, non ho trovato nessuna di queste difficoltà e penso che i due opposti lessicali si intreccino benissimo e diventino parte caratterizzante dei protagonisti.
Ambientazione storica italiana, scrittura molto competente, difficoltà nel discernere il reale dal fantastico… in poche parole è nell’Olimpo dei miei libri preferiti.
Tuttavia non è un libro che piace a tutti, lo sconsiglio a chi pretende finali chiari e a chi trova difficoltà coi dialetti.
Editore: Einaudi
Pagine: 164
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